Sono passati tre anni, ma le foto di Amir Javadifar, 24 anni, morto in seguito alle torture subite nel carcere di Kahrizak, restano tra le immagini più toccanti per chi si occupa di Iran e di diritti umani.
Di più: sono una delle ragioni per cui alcuni di noi hanno cominciato ad occuparsene e, ogni volta che quelle foto ritornano alla memoria, uno dei motivi per cui continuiamo a farlo. Per chiedere giustizia in nome di Amir e degli altri ragazzi come lui, assassinati per strada o morti sotto tortura solo perché erano scesi in strada a protestare pacificamente dopo le contestate elezioni presidenziali del giugno 2009; ma anche perché altri ragazzi iraniani come Amir possano avere un destino diverso; e – infine – perché i torturatori e gli assassini di Amir siano un giorno chiamati a rispondere della sua come delle altre giovani vite spezzate nell’estate del 2009.
Di foto di Amir come quella a sinistra ce ne sono tante. Fanno parte della quotidianità di un ragazzo nel pieno delle forze e della vita, desideroso di godersela e di costruirsi un futuro, ma anche di reclamare il rispetto dei suoi diritti di giovane cittadino del suo paese e di chiedere, come milioni di iraniani in quell’estate: “Dov’è il mio voto?”
Amir scriveva canzoni e studiava management industriale all’Azad University di Qazvin. Amava stare sul palcoscenico ed era iscritto a un corso di recitazione al Karnameh Institute.
La foto a destra, venne “rubata” in ospedale il 9 luglio 2009, il giorno in cui Amir era stato arrestato durante una manifestazione a Teheran. I basiji e gli agenti in borghese lo avevano picchiato a sangue, prima di arrestarlo. Furono le stesse forze dell’ordine a portarlo all’ospedale Firuzgar e a contattare il padre di Amir. Su insistenza della famiglia, nella notte tra il 9 e il 10 luglio, Amir fu trasferito in una clinica privata e sottoposto ad esami. Risultò che non aveva problemi gravi.
Il mattino dopo, dimesso dalla clinica, Amir fu portato (con la sua famiglia) alla stazione di polizia 148 di Teheran. Poiché non presentava ferite importanti, venne preso in consegna dagli agenti.
Fu l’ultima volta che la famiglia lo vide vivo.
Per due settimane i familiari di Amir rimasero senza sue notizie. Alle domande sulle sue condizioni, e su dove si trovasse, gli agenti rispondevano in modo evasivo e sfuggente.
Il 25 luglio 2009, infine, il padre di Amir fu convocato all’ufficio della polizia e mandato al centro di medicina legale del carcere di Kahrizak, per identificare il corpo di suo figlio, morto almeno 12 giorni prima.
A Kahrizak Amir era stato portato fin dal 10 luglio. Un testimone ha descritto così gli ultimi giorni di vita di Amir Javadifar a Kahrizak: “Aveva sete e faceva fatica a mangiare. Per aiutarlo gli mettevamo in bocca dei pezzetti di pane molto piccoli. Era debolissimo e non riusciva a camminare rapidamente. Continuavano a picchiarlo. Mi disse che non vedeva più dall’occhio destro. Questo accadde nel terzo giorno di detenzione a Kahrizak. Aveva l’occhio infetto. Cercavamo di prenderci di cura di lui e di metterlo vicino alla porta, in modo che prendesse un po’ d’aria.“
La morte di Amir avvenne proprio mentre lui ed altri prigionieri venivano trasferiti dal carcere di Kahrizak a quello di Evin. “Perse conoscenza – ha raccontato lo stesso testimone – e lo caricammo di peso sull’autobus diretto a Evin. E’ morto su quell’autobus. Più tardi abbiamo visto il suo corpo nel cortile di Evin.“
Ricordiamo qui Amir Javadifar, ma potremmo ugualmente raccontare la storia di Mohsen Ruholamini (25 anni) o quella di Mohammad Kamrani (18) anche loro morti, in questi stessi giorni di tre anni fa, per le torture subite a Kahrizak. E potremmo anche raccontare le storie dei giornalisti Mehdi Mahmoudian e Mohammad Davari, che per avere descritto e denunciato l’esistenza a Kahrizak di un vero e proprio centro di tortura segreto (in cui vennero rinchiusi i giovani arrestati durante le manifestazioni a Teheran), sono a loro volta detenuti da quasi tre anni.
Preferiamo tuttavia che a descrivere quel che accadde a Kahrizak in quei giorni infernali dell’estate 2009 siano le parole contenute nel secondo rapporto presentato il 6 marzo 2012 dal Relatore speciale delle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani in Iran, Ahmed Shaheed (pp. 22 e 23). Il rapporto ha raccolto altre testimonianze di prigionieri detenuti a Kahrizak.
“Furono (i manifestanti arrestati) trasferiti nel carcere di Kahrizak e chiusi in una cella di 70 metri quadrati senza ventilazione e con un solo bagno per un numero di prigionieri compreso tra 124 e 146, alcuni arrestati per crimini violenti, come l’omicidio o lo stupro. Questi altri prigionieri pare che infliggessero punizioni fisiche ai manifestanti. La cella era talmente affollata che bisognava fare i turni tra chi poteva dormire e chi restava in piedi. Quando volevano che i prigionieri stessero in silenzio, le autorità facevano pompare nella cella gas di scarico….
… Il giorno dopo i detenuti furono portati fuori scalzi e costretti a disporsi in cerchio e a camminare accovacciati sull’asfalto bollente del cortile. Tutti avevano bruciature ai piedi e quelli che non erano in grado di eseguire l’ordine ebbero invece bruciature alle mani e alle ginocchia come risultato di quello strisciare sull’asfalto. Coloro che non avevano le forze per farlo, vennero picchiati con mazze in PVC…
… A un prigioniero fu ordinato di prendere altri detenuti e di appenderli al soffitto in modo da “insegnare agli altri la lezione e renderli cooperativi.” Masoud Alizadeh fu scelto a caso, appeso al soffitto per i piedi e percosso. Dopo 20 minuti svenì. Dopo essere stato sganciato dal soffitto, fu sottoposto ad un altro pestaggio da parte di un altro detenuto su ordine delle autorità e subì gravi ferite alla testa, che non furono curate fino al suo trasferimento da Kahrizak…
A partire dal terzo giorno tutte le ferite subite durante i pestaggi erano ormai infette e la maggior parte dei prigionieri aveva infezioni agli occhi. Il calore della cella era intenso e come conseguenza la gente sveniva. Tra loro un prigioniero chiamato AMIR JAVADIFAR, che aveva varie fratture quando era arrivato nella cella. I detenuti si accalcavano sulla porta finché la guardia non consentiva loro una pausa di 15 minuti di aria fresca. Vari prigionieri furono mandati nel cortile a cercare cure mediche per le infezioni e le fratture ossee. Tuttavie la richieste di antidolorifici e di cure appropriate vennero ignorate. Ad Amir Javadifar fu detto dal medico di turno di smetterla di fare finta di star male. Anche a MOHSEN RUHOLAMINI e MOHAMMAD KAMRANI furono rifiutate le cure. Morirono tutti e tre a causa delle ferite.
Il quinto giorno i detenuti furono preparati al trasferimento da Kahrizak al carcere di Evin. Il direttore del centro di detenzione picchiò i prigionieri perché “non si vestivano abbastanza in fretta.” I testimoni affermano che AMIR JAVADIFAR morì durante questo trasferimento a causa della negligenza delle autorità. I detenuti si lamentarono con le autorità per il suo respiro e le sue condizioni che apparivano gravi, tuttavia nessuna cura medica gli venne prestata finché fu un altro prigioniero a tentare la rianimazione cardio-polmonare, quando JAVADIFAR smise di respirare“.