Nasrin Sotoudeh, avvocata iraniana e prigioniera di coscienza, compie oggi 50 anni.
Li “festeggia” nel luogo che le è più familiare da tre anni, l’infame prigione di Evin, a Teheran. E’ il luogo in cui si trova dal 4 settembre 2010; il luogo in cui è stata tenuta per mesi in isolamento; in cui è stata più volte in sciopero della fame per protestare contro l’illegalità della sua detenzione prima, contro le condizioni della stessa poi; in cui ha avuto la forza di rifiutare la visita dei figli, pur di non vederli attraverso un vetro come se fosse una pericolosa criminale. Il luogo in cui condivide le sue giornate (e quindi presumibilmente anche questa) con decine di altri innocenti come lei, colpevoli solo di avere opinioni politiche, religiose, culturali non allineate con quelle del regime islamico dell’Iran. Il luogo, infine, in cui secondo la volontà dei giudici Nasrin Sotoudeh dovrebbe restare fino al 2016. Quando ne uscirà – questo hanno deciso i tribunali – fino al 2020 non potrà esercitare la sua professione di avvocata.
Nasrin è stata condannata infatti, nel settembre 2011, a 6 anni di carcere e a 10 di interdizione all’attività legale. La sentenza di secondo grado, definitiva, ha parzialmente ridotto l’entità della pena stabilita dal primo processo, che era di 11 anni di prigione e 20 di sospensione professionale. Le accuse a suo carico erano “propaganda contro il regime” e “attentato alla sicurezza nazionale”. Una vera criminale, Nasrin Sotoudeh. Ha messo in pericolo la sicurezza nazionale difendendo minori condannati a morte. Ha svolto propaganda contro il regime assumendo la difesa legale di prigionieri di coscienza, prima di diventarlo a sua volta. Ha cospirato contro l’ordine costituito scrivendo sui giornali riformisti e auspicando la parità di diritti per le donne iraniane. Nella stravolta concezione di “giustizia” dei tribunali rivoluzionari iraniani, viola la legge chi la difende; chi, muovendosi all’interno del sistema giuridico iraniano, assume nei processi il patrocinio legale degli imputati che il regime vorrebbe indifendibili e indifesi: i dissidenti, i giornalisti di opposizione, gli attivisti del movimento studentesco, gli esponenti delle minoranze etniche e religiose, i sindacalisti, i difensori dei diritti umani. Tutti pericolosi delinquenti. Ma, più pericoloso di loro, è chi, come Nasrin Sotoudeh, in tribunale sa usare la legge – e la legge iraniana, anzi il codice penale islamico iraniano – per impedire gli abusi di una magistratura incapace di agire con indipendenza, e abituata a muoversi solo in esecuzione della linea politica della Guida Suprema dell’Iran.
Scriveva, oramai molti mesi fa, Nasrin Sotoudeh in una lettera vergata su un fazzolettino di carta e indirizzata ai figlioletti Nima e Mehraveh (4 e 13 anni): “La mia fierezza è quella di avere subito una condanna superiore a quella dei clienti che difendevo.”
Nella Repubblica Islamica dell’Iran sono pericolosi, e meritano pene maggiori dei prigionieri di coscienza “normali”, gli avvocati di quegli stessi prigionieri, perché in un contesto in cui l’arbitrio la fa da padrone, l’opera di difensori che, nei processi politici, sono presumibilmente i soli a muoversi nel rispetto delle leggi e a chiederne la corretta applicazione, rischia di inceppare l’ingranaggio e di mostrare che il re è nudo. Che – cioè – la giustizia iraniana è un gigantesco apparato poliziesco-repressivo nelle mani del regime, e che si serve di magistrati che più che uomini di legge sono passacarte consenzienti all’interno di quell’apparato. E non è un caso se molti di loro riempiono con i loro nomi la lista nera stilata dall’Unione europea: un elenco di violatori dei diritti umani per professione a cui la Ue ha congelato i beni all’estero e impedisce di viaggiare in territorio europeo. Mentre, per converso, più di quaranta avvocati, negli ultimi anni, sono stati in vario modo perseguitati dal regime: chi costretto all’esilio, chi minacciato, chi spinto ad abbandonare la professione, chi incarcerato.
In un sistema giudiziario che ha trasformato la violazione dei diritti umani in prassi di stato, un’avvocata come Nasrin Sotoudeh non poteva che stare dove sta: a Evin. Dove l’ha raggiunta, forse, l’eco del premio Sakharov che l’Europa le ha conferito (insieme al suo illustre concittadino e cineasta “silenziato” Jafar Panahi). Dove, da dietro un vetro, vede crescere senza madre i suoi due bambini. Dove fa compagnia ai prigionieri che non può più difendere. Dove non può ascoltare né gli attestati internazionali di stima, né le proteste contro la sua detenzione illegale, né i nostri auguri. Che partono lo stesso, come messaggi nelle bottiglie, destinati ad arrivare ed essere letti in un altro Iran. Quello in cui Nasrin Sotoudeh non sarà più una “cospiratrice contro la sicurezza nazionale”, ma l’orgoglio di un paese libero.
Buon compleanno Nasrin.